Netflix e la corsa all’Oscar: l’anno in cui lo streaming vuole la statuetta
“Il cinema non morirà mai, cambierà forma. E ogni volta che lo fa, diventa più umano.”
— Guillermo del Toro, durante la presentazione di Frankenstein a Venezia 2025
Netflix ha smesso di voler solo riempire serate: ora vuole scrivere pagine di storia del cinema. Dopo anni passati a cercare un equilibrio tra quantità e qualità, la piattaforma entra nel 2025 con una visione precisa: produrre film in grado di conquistare la critica, dominare le sale e trionfare agli Oscar. Decide così di non essere più solo “vedibile”, ma “premiabile”. E il suo linguaggio – quello dello streaming – si è fatto adulto.
Negli ultimi anni l’Academy ha mostrato segni di apertura, ma la diffidenza verso i film distribuiti online è rimasta latente. Netflix ha risposto con una strategia chirurgica: uscite cinematografiche limitate, registi da Oscar, cast internazionali e campagne pensate per la stagione dei premi. La differenza rispetto al passato è la coerenza. Ogni titolo del 2025 sembra parte di una narrazione più ampia con il chiaro tentativo di ridefinire il rapporto tra pubblico e prestigio.
A House of Dynamite ci mostra la fragilità di un sistema all’apparenza impenetrabile
Kathryn Bigelow torna con un thriller geopolitico che esplora la tensione tra potere e paranoia nucleare. A House of Dynamite è un film duro, realistico, quasi militare nella precisione della regia: la storia di un missile in volo verso gli Stati Uniti e di un apparato politico che deve decidere come reagire. Netflix l’ha presentato in concorso alla Mostra di Venezia e l’ha poi distribuito globalmente, ottenendo più di 20 milioni di visualizzazioni in pochi giorni. È cinema d’autore mascherato da blockbuster, un ponte tra la complessità di Zero Dark Thirty e la tensione spettacolare delle grandi produzioni hollywoodiane. Bigelow costruisce immagini di potere e fragilità che parlano al nostro tempo digitale, dove l’informazione esplode più veloce delle bombe. Per Netflix è una dichiarazione d’intenti: l’autorialità può esistere anche nel formato globale dello streaming.
Frankenstein e il duplice volto del mostro e l’anima
Se Bigelow guarda alla geopolitica, Guillermo del Toro guarda dentro l’uomo. Il suo Frankenstein è uno dei film più discussi dell’anno, un adattamento gotico e sensuale che riporta il romanzo di Mary Shelley alle sue origini filosofiche. Oscar Isaac interpreta lo scienziato ossessionato dal potere di creare la vita; Jacob Elordi, la creatura che diventa specchio dell’umanità. Del Toro lo definisce “una storia sull’illusione del controllo e sull’amore che resta anche quando tutto è fallito”. La citazione che apre questo articolo – “Il cinema non morirà mai, cambierà forma…” – non è solo poetica, ma strategica: sintetizza l’intera visione Netflix. La piattaforma ha capito che il futuro dell’audience non è nella quantità, ma nella longevità emotiva dei film. Frankenstein è il simbolo di questo cambio: un’opera che unisce estetica spettacolare e contenuto profondo, pensata per vincere tanto nelle sale quanto sugli schermi domestici.
La Ballata di un piccolo giocatore come metafora malinconica del gioco d’azzardo
In La Ballata di un piccolo giocatore, Colin Farrell interpreta un uomo in fuga dai debiti e dal proprio passato nei casinò di Macao. Diretto da Edward Berger (già premiato con Niente di nuovo sul fronte occidentale), il film è elegante, malinconico, costruito come un jazz lento tra perdita e riscatto. Netflix lo ha sostenuto come “film d’autore”, ma l’ha promosso con l’impatto di un titolo mainstream, dimostrando che la sua strategia non è più duale – non esiste più un “film da pubblico” e un “film da critica”. È cinema che parla a entrambi. Le prime recensioni europee lo definiscono “un dramma silenzioso che risuona a lungo”, e molti analisti prevedono una corsa alla statuetta per Farrell. È il titolo che più rappresenta la fusione tra poesia e algoritmo, tra delicatezza narrativa e precisione nella distribuzione.
Jay Kelly e il riflesso della fama
Il quarto tassello di questa nuova campagna Netflix è Jay Kelly, firmato da Noah Baumbach e interpretato da George Clooney e Adam Sandler. È un film che riflette sullo spettacolo della celebrità e sull’identità, in un viaggio on the road che alterna ironia e malinconia. Baumbach gioca con il ritmo, con la nostalgia dei ’70 e con la vulnerabilità maschile, portando due icone opposte (Clooney e Sandler) a recitare senza difese.
“Everybody knows Jay Kelly, but Jay Kelly doesn’t know himself”
— Citazione del protagonista George Clooney
Questa frase che accompagna il trailer riassume la condizione del moderno spettatore: visto, ma non conosciuto. Anche qui, Netflix ragiona in termini di riconoscibilità emotiva, costruendo un racconto sul successo che diventa specchio della società digitale.
Oltre l’audience: la nuova grammatica del prestigio
Il vero successo di Netflix non sarà soltanto nei numeri – che restano vertiginosi – ma nel modo in cui l’audience partecipa al discorso culturale. La piattaforma ha creato una forma di fruizione condivisa ma sofisticata passando dal “passaparola virale” dei tempi di Stranger Things, alla conversazione critica da cineforum globale. I film vengono commentati, analizzati, dissezionati come accadeva per le pellicole d’autore. E questo rappresenta un cambio di paradigma: lo streaming che genera pensiero, non solo intrattenimento.
A differenza delle major tradizionali, Netflix può permettersi di fallire più spesso, ma anche di sperimentare più radicalmente. Ogni titolo importante – da A House of Dynamite a Frankenstein, da Jay Kelly a La Ballata di un piccolo giocatore – funziona come una tessera del mosaico: la costruzione di una nuova idea di cinema globale, dove il confine tra blockbuster e arthouse evapora.
E dopo gli Oscar?
Che Netflix vinca o meno, il messaggio è già passato: la piattaforma è diventata un vero studio cinematografico, con l’ambizione di cambiare le regole del gioco. Nel prossimo decennio la distinzione tra film “da sala” e film “da piattaforma” sarà irrilevante: conteranno la qualità, la visione e la capacità di generare conversazione. Netflix sta creando la nuova grammatica del prestigio, e lo fa con un linguaggio capace di attraversare schermi, premi e generazioni.
In fondo, come ha detto Guillermo del Toro,
“Il cinema non morirà mai, cambierà forma. E ogni volta che lo fa, diventa più umano.”
Ed è proprio in quella forma mutevole che Netflix ha deciso di giocarsi la sua partita più ambiziosa: non quella del dominio tecnologico, ma quella dell’eternità culturale.