
Tra le nuove scoperte nel mondo delle direzioni creative, Elena Vélez, nata nel Wisconsin, fonde perfettamente nel suo codice estetico l’empowerment femminile con un’estetica vissuta, grezza, volutamente trasandata;
una bellezza che spesso si discosta dall’idea convenzionale di femminilità.
Da donna, ciò che la stilista vuole trasmettere è la storia di ogni donna, il suo vissuto e la delicatezza di un petalo costantemente sfidato da un vento gelido. La donna, nella visione di Vélez, è una guerriera: come dimostrato nella sfilata primavera/estate 2024 della New York Fashion Week, dove le modelle, immerse nel fango, combattevano in una performance che sporcava abiti e capelli — simboli tradizionali della grazia — per liberare un nuovo concetto di forza e autenticità.
Secondo la direttrice creativa, è necessario smantellare lo stereotipo che associa la femminilità alla delicatezza e alla compostezza, per restituire alla donna un’energia più libera, istintiva e meno accomodante.
Nella sua ultima sfilata, presentata alla New York Fashion Week primavera/estate 2026, Vélez cambia rotta, ispirandosi al tema del viaggio. Figlia di un capitano di nave, intreccia riferimenti alla Grande Depressione americana e al nomadismo interno, costruendo una narrazione contemporanea in cui — come lei stessa afferma — “nessuno ha ottenuto ciò che voleva”. Attraverso estetica, poesia e ironia, affronta questioni socio-politiche profonde, trasformandole in abiti che diventano simboli di resistenza e adattamento.

Sul piano stilistico, ritroviamo i codici tipici della designer: abiti e completi destrutturati, “frock coat”, corsetti, gonne con risvolti ruvidi, camicie da lavoro sporche e tessuti che evocano fatica, viaggi, emarginazione. I suoi personaggi sembrano vagabondi moderni, anime erranti che portano sul corpo le tracce di un mondo in cambiamento.
Durante la sfilata, il messaggio della collezione ha preso forma in una serie di dettagli simbolici che dialogavano con forza con lo spazio circostante. Le catene intrecciate ai corsetti non erano soltanto ornamenti, ma metafore di una femminilità intrappolata e, al tempo stesso, in cerca di liberazione: un gesto visivo che raccontava la tensione costante tra costrizione e autonomia. I tessuti logori e sfrangiati, invece, ricordavano vele strappate dal vento, portando con sé l’immaginario del viaggio, della sopravvivenza, della capacità di resistere anche quando la rotta si perde.

Il set scenico, concepito come un cantiere navale in disuso, era un paesaggio di assi di legno, corde e pozze d’acqua che riflettevano luci fredde e taglienti. Ogni passo delle modelle, tra fango e travi, evocava l’idea di un naufragio condiviso, un’esplorazione fragile ma determinata. Apparivano come naufraghe contemporanee, sospese tra passato e futuro, portatrici di una nuova idea di femminilità: non più una bellezza levigata e compiacente, ma una forza autentica che trova il proprio equilibrio nel disordine, nel mare in tempesta della modernità.