Ciò che mangiamo e ciò che indossiamo: la consapevolezza che si ferma a tavola 

Negli ultimi anni si è sviluppata una grande attenzione verso ciò che mangiamo. Gli scaffali dei supermercati si sono riempiti di prodotti biologici, “senza conservanti” e “a chilometro zero”. Ci informiamo sugli ingredienti, leggiamo le etichette, cerchiamo di capire da dove proviene ciò che mettiamo nel piatto. Tuttavia, pochi si interrogano con la stessa curiosità su ciò che mettono addosso: i tessuti, le fibre, le tinture e i trattamenti chimici che ogni giorno restano a contatto diretto con la pelle, il nostro organo più esteso. 

È curioso come la consapevolezza si fermi a tavola. 
Ciò che ingeriamo ci sembra intimo, vitale, mentre ciò che indossiamo appare esterno, decorativo, quasi irrilevante. Ma la verità è che la pelle “respira” i nostri abiti, e che ogni capo ha una storia che va ben oltre il suo prezzo o il suo colore. 

Il paradosso della disattenzione 

Il corpo è spesso percepito come un confine: dentro ci sono le cose “pure”, fuori ciò che è “superficiale”. Questo modo di pensare, ereditato da una lunga tradizione culturale, spiega perché ci preoccupiamo tanto del cibo e così poco dei vestiti. Eppure, i materiali che compongono la maggior parte dei capi moderni — poliestere, nylon, acrilico, elastan — sono derivati del petrolio, trattati con sostanze chimiche per ottenere morbidezza, resistenza o colori brillanti. 

La moda che ci ha travolti 

Il fast fashion ha trasformato radicalmente il nostro rapporto con l’abbigliamento. 
Collezioni nuove ogni mese, prezzi sempre più bassi, capi che durano lo spazio di una stagione: tutto questo alimenta un sistema insostenibile. 

Il problema non risiede solo la quantità, ma anche nella produzione e lo smaltimento. Il cotone, ad esempio, è una fibra naturale ma estremamente dispendiosa: per produrre una singola maglietta servono migliaia di litri d’acqua. Le discariche tessili nei paesi produttori, soprattutto in Asia e in Africa, si riempiono di scarti provenienti dall’Occidente, dove i capi invenduti finiscono spesso a bruciare o a seppellire interi ecosistemi. 

Nel frattempo, noi viviamo protetti da questo scenario, godendo solo dei benefici, ma questa libertà ha un prezzo, semplicemente non lo stiamo pagando noi. 

La moda del domani 

C’è però un altro modo di immaginare la moda: quello di una moda circolare e consapevole, in cui i materiali non diventano rifiuti ma risorse. 
Negli ultimi anni, alcune realtà stanno sperimentando fibre biodegradabili, tessuti prodotti da scarti alimentari (come l’azienda Orange Fiber, che produce tessuti a partire dai sottoprodotti dell’industria degli agrumi), o materiali a basso impatto come il Tencel, la canapa o il cotone organico. 

Anche il second hand, il riuso e il riciclo creativo stanno tornando centrali. Comprare vintage, scambiare, riparare, personalizzare un capo sono gesti che vanno oltre la moda: diventano atti di responsabilità e di libertà
 

Una visione utopica? 

Qualcuno potrebbe obiettare che questa è solo una visione utopica, accessibile a pochi, che i capi sostenibili costano troppo, che la moda etica resta una nicchia per chi può permettersela…è una critica legittima, ma non definitiva. 

Ognuno dovrebbe fare la propria parte, il cambiamento inizia dal voler sapere, dal voler capire, informarsi sui materiali, comprare meno e cercare di costruire un proprio stile, prediligere il second hand, leggere le etichette: sono tutte scelte che sommate, possono cambiare il sistema. 

Inoltre, come già accennato prima, la produzione del fast fashion avviene in Paesi dove le condizioni di lavoro, i salari e l’impatto ambientale sono ben diversi. Viviamo solo i benefici per pura fortuna geografica e proprio per questo, abbiamo una responsabilità in più: di non guardare dall’altra parte, di considerare il benessere come un’occasione per agire in modo più giusto. 

Il Progetto 333 

In un contesto in cui il costo della vita è in costante aumento e la moda sostenibile non è alla portata di tutti, rinunciare completamente al fast fashion risulta impossibile. Una valida alternativa è rappresentata dal Progetto 333

Ma in che cosa consiste?  

Courtney Carver, scrittrice e fotografa americana, nel lontano 2010 lancia una sfida a se stessa, ovvero vestirsi per 3 mesi con soli 33 capi. Così nasce il progetto “Minimalist Fashion Project 333 – be more with less”, oggi diventato un vero e proprio metodo per organizzare il proprio armadio. 

La scrittrice, quindi, ha riempito il suo guardaroba con soli 33 oggetti, tra cui vestiti, scarpe e accessori. Non si devono scegliere sono i capi che si amano e si indossano di più, bisogna adottare un criterio: scegliere in base alle proprie abitudini di vita e capi intercambiali, per poter creare infinite combinazioni.  

Un buon esempio potrebbe essere:  

  • 8 pezzi di sopra 
  • 6 pezzi di sotto 
  • 4 vestiti 
  • 3 giacche/giacconi 
  • 4 scarpe  
  • 2 borse 
  • Un paio di occhiali 
  • Un paio di gioielli  

Ovviamente, le regole non devono essere così rigide, ma, adottare questo ragionamento potrebbe essere un punto di partenza. Questo metodo cambierà i meccanismi di scelta, inizierete a scegliere in modo diverso, badando meno alla quantità e più alla qualità, costruendo un guardaroba ragionato e puramente vostro. 

Conclusione 

La sostenibilità non si ferma nel piatto, ma continua su ciò che ci avvolge ogni giorno, e capire cosa indossiamo significa capire il mondo in cui viviamo. 
La pelle, dopotutto, non è una barriera: è un punto di contatto, e ciò che vi appoggiamo sopra parla di noi, delle nostre scelte e del futuro che vogliamo costruire. 

Magari è una visione utopica, ma la sostenibilità non è un privilegio, è un percorso di coscienza e ogni piccolo passo è un passo più vicino.