Debutto da Dior che osa, ma non sempre colpisce nel segno. Tra citazioni evidenti e proporzioni esasperate, la collezione sembra più un esercizio di stile che una visione compiuta.
Il primo capitolo della nuova era Dior si è aperto sotto i riflettori della Paris Fashion Week con una sfilata che ha subito diviso critica e pubblico. Jonathan Anderson, chiamato a reinterpretare l’eredità della maison francese, ha messo in scena una collezione che a tratti affascina, ma spesso lascia un senso di incompiuto.
Al centro della passerella, la Bar Jacket – simbolo iconico di Dior – appare più leggera, quasi aerea, come sospesa in una dimensione onirica. Una scelta audace che spiazza, ma rischia anche di smorzare l’identità di un capo storicamente strutturato e rigoroso. L’idea di reinventare questo pezzo cult era necessaria, ma il risultato è a tratti fragile e incerto.
I maxi panier, altro elemento chiave, si fanno spazio con volumi amplificati, quasi scultorei, che richiamano con forza l’epoca storica ma senza offrire un dialogo pienamente riuscito con il presente. Il cappotto “sbagliato”, volutamente fuori misura e disallineato, punta a rompere le regole classiche della maison. Tuttavia, più che apparire come un gesto di ribellione consapevole, sembra talvolta un vezzo estetico che non aggiunge sostanza alla narrazione.
Il tentativo di Anderson è chiaro: fondere tradizione e contemporaneità, memoria e innovazione. Ma in questo esperimento il confine tra omaggio e ripetizione rischia di sfumare. Non mancano momenti di grazia e dettagli raffinati, ma l’insieme fatica a costruire un racconto coerente e potente.
La prova del presente, quindi, resta aperta. Dior sotto la guida di Anderson promette di essere una sfida continua, dove il rischio creativo è palpabile. Questo debutto è un primo passo coraggioso, ma servirà ancora tempo per vedere se la maison riuscirà a ritrovare una nuova voce autentica, capace di lasciare un segno indelebile nel panorama della moda contemporanea.